"La mia notte senza Coppa all'Heysel"

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Disco 70_80
CAT_IMG Posted on 28/5/2010, 09:05     +1   -1




Il racconto di chi c'era a 25 anni dalla strage

di *Gino Franchetti

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Una prima volta c'è per tutti, ma non sempre fa bene ricordarla. A Bruxelles, stadio Heysel, quella sera del 29 maggio 1985 io c'ero. C'ero e ho visto tutto, al di là di quel gol su rigore di Michel Platini, decisivo per l'assegnazione della Coppa alla Juve, che pure non avrebbe potuto in futuro ricordare quello come un giorno glorioso. Tutto o quasi ho visto.

Perché il mio "esserci" è partito in ritardo, impegnato com'ero a litigare, spalle al campo, con i responsabili dei collegamenti telefonici che non avevano fatto trovare a noi del "Giorno" il richiesto telefono al posto stampa in tribuna. Quando mi sono accorto che qualcosa di strano accadeva nel settore di curva alla sinistra della nostra postazione probabilmente da casa mia avevano già chiamato con preoccupazione comprensibile la redazione del giornale, perché il dramma che si stava consumando, visto in Tv, doveva essere se possibile persino amplificato.

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"Guarda lì che cosa succede!", bofonchiò Gianmaria Gazzaniga al mio ritorno al posto, senza nemmeno chiedermi che risultato avessi ottenuto con quelli dei telefoni. Lì dove? Sentivo urlare ma non capivo, lo stadio era una bolgia infernale. La prima immagine che mi colpì fu nella curva alla mia destra, dov'erano raggruppati i tifosi della Juve. La curva era evidentemente in tumulto. Ne partivano lanci di oggetti verso il campo; qualcuno tentava, respinto dai pochi agenti incaricati di mantenere l'ordine attorno al rettangolo di gioco, di scavalcare le transenne e buttarsi dentro. "Siamo alle solite - mi scappò detto -. Che cosa vogliono fare quei deficienti?". "Di là - disse una voce -, è di là che tentano di andare". Fu allora che mi accorsi di quel che stava accadendo.

Si vedeva gente che premeva contro le reti di protezione e la polizia belga che usava il manganello. Qualcuno si aggrappava a improbabili appigli, poi si lasciava cadere oltre, sul corridoio in pietra o sul prato vicino alla bandierina del calcio d'angolo. Ma sul prato, ecco, c'era gente distesa. Il servizio d'ordine si preoccupava di liberare il campo, ma non era possibile: la piccola fiumana pareva ingrossarsi sempre più e gli hooligans inglesi bersagliavano senza sosta (cos'erano? pezzi di ferro?) il settore a rischio accanto alla loro curva, dove molti italiani che non avevano fatto ricorso alla prevendita degli Juve Club avevano trovato posto. "Non ha retto - si sentì urlare -, è crollato il muro!". Allora sì il disastro divenne visibile.

C'erano corpi distesi sul prato e non si muovevano più. C'era gente che si muoveva da uno all'altro, altri invitavano gli agenti a intervenire e indicavano la follìa inglese che non aveva fine, la fuga disperata di inermi pacifici tifosi alle prese con energumeni seminudi armati di spranghe di ferro: sospinti nel vuoto, gli italiani cadevano gli uni sugli altri. "Vado giù", dissi, mentre le barelle cominciavano a portar fuori corpi inanimati e la polizia intimava bruscamente di liberare il terreno di gioco a tutti coloro che si reggevano in piedi. Udivo voci scandalizzate mentre l'altoparlante invitava il pubblico a mantenere la calma: "Ma che cosa fanno? Vogliono che si giochi?". Mentre si dava inizio alla partita (era la scelta migliore, sosteneva qualcuno, per evitare che il vecchio Heysel diventasse un campo di battaglia), io scoprivo tutt'altro spettacolo nello spiazzo davanti al settore tribune.
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Erano arrivate alcune ambulanze e altre ne erano state richieste, ma la capitale del Belgio appariva incapace di reggere alle proporzioni della tragedia che nessuno aveva saputo prevedere. Con l'esperienza di quel giorno e di tutti i problemi che sarebbero stati creati in seguito attorno al calcio da masse di scriteriati e violenti pseudotifosi, qualcuno certo avrebbe stabilito che in quello stadio, glorioso ma trascurato e non adeguato a ospitare in sicurezza una finale europea, non si poteva giocare. Ma allora l'organizzazione calcistica era ancora fin troppo ingenua a fiduciosa. Chi mai avrebbe pensato di dover approntare un piano di soccorso per qualcosa come seicento feriti? Perché erano quelle, si sarebbe appreso poi, le proporzioni del dramma.

Avevano montato delle tende per tenervi riparati i feriti più gravi. Lungo il muro dello stadio erano allineati una trentina di corpi, ricoperti alla meglio. Erano morti! Ma quante vittime senza più speranza aveva dunque provocato quella follìa? Nessuno sapeva dirlo. Non certo gli spettri che si aggiravano lì attorno, ognuno raccontando il proprio pezzetto di storia tragica. Di come i tifosi italiani fossero stati accolti allo stadio come potenziali delinquenti dalla polizia a cavallo belga, fin troppo amichevole nei confronti dei tifosi del Liverpool. Di come gli inglesi, ubriachi, avessero cominciato una volta assiepati nel loro settore (ne erano entrati, probabilmente, più di quanti fossero in possesso di regolare biglietto) a lanciare lattine piene di birra, poi pezzetti di cemento strappati alla carne di quello stadio in decadenza, poi proiettili di ferro. Di come avessero poi sfondato le transenne e divelto le sbarre di ferro da usare come armi. Di come qualcuno avesse impugnato il coltello nel gettarsi contro quella piccola folla tranquilla di famiglie e tifosi anche occasionali: uno juventino grande e grosso aveva sparato un pugno in pieno viso al capo dei facinorosi armati, bloccando lo slancio di coloro che lo seguivano e mettendo in salvo se stesso e altri vicini a lui.

Di come avessero visto entrare allo stadio eccitata e sorridente una bella ragazza dai pantaloni verdi (forse Giuseppina Conti, 17 anni) e l'avessero poi riconosciuta fra i corpi distesi e semicoperti, proprio per il colore di quei pantaloni. L'avrebbero messa nel titolo di uno dei miei articoli da Bruxelles la "ragazza dai pantaloni verdi". E il mio orrore sarebbe continuato il giorno dopo, con i racconti dei feriti e dei familiari dei morti (39 il bilancio finale) trovati negli ospedali della città, essa pure sotto choc, tanto che, in cerca degli italiani ancora in vita e purtuttavia gravemente colpiti, sarei addirittura entrato, senza incontrare i dovuti sbarramenti cautelari, fra i corpi nudi di uomini e donne in una sala di rianimazione. Ma intanto quella sera maledetta, mentre dettavo la mia cronaca mesta, avevo potuto vedere Michel Platini, un grande in assoluto, andare al gol su rigore per un fallo su Boniek commesso fuori area. Con quel gol la Juve aveva vinto la sua prima Coppa Campioni. Ma aveva vinto?


(* Gino Franchetti, nato a Milano il 7 marzo 1943, è un giornalista sportivo. Ha lavorato, oltre che per "Il Giorno", al "Corriere dello Sport-Stadio" e alla "Gazzetta dello Sport", dov'è stato caporedattore. Ha seguito da inviato finali di Coppa e Mondiali. Dal 1995 al 1999 è stato responsabile delle relazioni esterne e delle attività editoriali dell'Inter)


 
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